Bullizzare, un verbo che ben si adatta a un fenomeno diffuso
Giada Boschi*
– Ripercorrendo con la memoria il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, tutti ricorderanno gli scherzi dei compagni di scuola o di squadra, che ridevano di una particolarità fisica o di un goffo modo di fare. Nella maggior parte dei casi, simili episodi si risolvevano con risposte argute alle battute ironiche degli altri o con l’intervento dell’insegnante che, nei casi più seri, provvedeva a mettere una nota disciplinare. Spesso, il ricordo di certi avvenimenti si accompagna a un sorriso, perché quasi mai quelle burle comportavano conseguenze spiacevoli per le “vittime”.
I termini bullo e bullismo fanno parte, da molto tempo, della nostra quotidianità, ma fino a qualche anno fa la parola bullo era utilizzata solo per indicare un ragazzino piuttosto dispettoso, un adolescente che provava soddisfazione nel prendere in giro i compagni di classe più deboli e taciturni, un individuo sicuramente fastidioso, ma lungi dall’essere considerato pericoloso o cattivo. Si parlava poco di bullismo – gli episodi di bullismo erano rari – e lo si faceva sempre con una certa prudenza, come se si avesse timore anche solo di pronunciare quella parola, che denotava un problema piuttosto serio.
Sembra che in pochi anni la fase adolescenziale della vita abbia subito cambiamenti profondi e importanti; difficile spiegare in cosa e in che modo, ma ciò che è evidente è che tali cambiamenti si riflettono nelle azioni e nel comportamento degli adolescenti, che sempre più spesso sono vittime o responsabili di bullismo. Che si tratti di bullismo, perpetrato tra i banchi di scuola, o di cyberbullismo, attuato tramite strumenti telematici, il numero di bulli aumenta incessantemente. Ragazzini e ragazzine si rendono protagonisti di violenze e vessazioni nei confronti di coetanei o ragazzi più piccoli, cui provocano traumi fisici e psicologici. Questo fenomeno giovanile si sta diffondendo in un modo e a una velocità impossibili da immaginare fino a pochissimi anni fa, ma tali da “costringere” la lingua italiana ad adeguarsi alla nuova realtà.
Il termine bullizzare è recentissimo, precedentemente si utilizzava l’espressione compiere atti di bullismo, ormai quasi obsoleta: il verbo bullizzare, impiegato soprattutto dai media, definisce perfettamente il fenomeno, che forse è ormai talmente vasto e tangibile da meritare un unico termine, che lo descriva e lo inquadri con estrema precisione. La lingua italiana sembra voler riflettere il repentino cambiamento della società, che ha visto qualcuno “compiere atti di bullismo” e qualcun altro “essere vittima di bullismo” e che ora ha a che fare con qualcuno che “bullizza” e qualcun altro che “è bullizzato”; questa modificazione lessicale rispecchia l’incisività di un fenomeno ormai piuttosto definito, che coinvolge ragazzini, spesso riuniti in baby gang, che vanno in giro a terrorizzare e a maltrattare gli altri, corredando le loro nefandezze di riprese fatte con gli smartphone, rigorosamente di ultima generazione.
Come reagisce la società a questi ragazzini in grado di compiere le violenze più disparate, paragonabili talvolta alle azioni dei criminali? Cerca di varare leggi contro il bullismo e infliggere punizioni ai bulli: dai provvedimenti disciplinari adottati dagli istituti scolastici, fino ai percorsi di recupero volti a rieducare, o meglio, educare i bulli alle responsabilità, al rispetto e all’amore verso gli altri.
Bullizzare non ha nulla a che fare con le canzonature e gli scherzi innocenti, tipici dei bambini e degli adolescenti, che si concludono sempre bonariamente. Bullizzare racchiude, nel suo significato, cattiveria, debolezza, meschinità, mancanza di rispetto, disprezzo fini a se stessi, messi in atto dai giovanissimi solo per mostrarsi invincibili e per il piacere del controllo su tutto e su tutti. Fenomeno che sta andando nella direzione della piaga sociale e che la nostra lingua ha voluto lessicalizzare, riconoscendogli un’autonomia e una concretezza degne di nota e di riflessione da parte di ognuno di noi.
Università degli Studi di Napoli “Parthenope”
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