Il culto dei morti in Campania, tavola imbandita con il torrone
Luigi Fusco – Tra il primo e il 2 novembre, cioè tra la festività di Ognissanti e la ricorrenza della commemorazione dei defunti, le anime dei nostri cari passati a “miglior vita” sono tra noi, per quanto lo siano sempre.
Secondo la tradizione campana è usanza far trovar loro, a partire dalla notte del 31 ottobre, una tavola imbandita per sfamarli dal lungo viaggio dall’oltretomba.
Un pezzo di pane, un bicchiere di acqua e uno di vino, una porzione di baccalà, una di torrone morbido, quello dei “morti” a forma di bara, e vari pezzettini di torrone bianco con le mandorle: le “ossa dei morti”.
In alcune aree del casertano sono inoltre diffusi i “taralli dei morti”, dolci ricoperti di glassa bianca.
Secondo altre consuetudini locali, i defunti vagano tra noi fino all’epifania, mentre stando ad altre teorie sembra che la loro permanenza duri fino al giorno della candelora.
Ancora una volta, anche per le festività di Ognissanti e dei “morti”, forte è il sincretismo pagano-cristiano, considerate le origini greche, romane ed etrusche del territorio campano e la sopravvivenza nei secoli di alcuni culti, per quanto ne siano stati poi cambiati i nomi e le connotazioni.
Il rimando va a Ecate, divinità ctonia, la cui dimora è negli inferi.
Ed è proprio a novembre, con il ritorno dell’ora solare, che la dimensione di vita di ognuno è pervasa più da ombre che da luci e forte è il desiderio di ricongiungersi l’affetto dei propri cari nell’attesa dell’arrivo della “vera luce” che arriverà con il Natale.
Al riguardo, a Napoli, dove molto sentito è il culto delle Anime del Purgatorio, negli ipogei ospitanti i resti delle “anime pezzentelle”, teschi e tibie, stanti nel Cimitero delle Fontanelle, nella chiesa di Santa Maria del Purgatorio ad Arco e nelle Catacombe di San Gaudioso, c’è sempre un piccolo presepe composto essenzialmente dalla sacra famiglia: il segno tangibile della luce della vita che ritorna in maniera ciclica dopo la morte.
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