Mercoledì delle Ceneri, anche la sarda è secca per l’occasione
Dopo il Carnevale, come da tradizione, ogni buon cristiano deve ricondurre se stesso e il proprio spirito a Dio e pertanto, terminati i lazzi, le goliardie e, soprattutto, le abbuffate del “martedì grasso”, deve ricordarsi che quia pulvis es et in pulverem reverteris. In memoria dei quaranta giorni di digiuno di Cristo, sin dalla prima epoca cristiana, presuli e semplici ministri del Signore hanno sempre invitato i fedeli ad astenersi dalla carne, perché considerata un alimento da proibire nel “tempo di magra”, così come non erano permessi i latticini e i “rossi” delle uova. In età alto medioevale chi trasgrediva a tale precetto veniva addirittura condannato a morte.
Nel tentativo di evitare qualsiasi tipo di malinteso, in merito al divieto di consumo di determinati cibi, venne finanche pubblicato in Francia, agli inizi del XIII secolo, un libro apposito, la cui trama era incentrata sullo scontro tra gli alimenti grassi e quelli magri. La bataille de Caresme et de Charnage, questo il titolo del volume in cui protagoniste erano le armate dei pesci e delle carni. In uno scenario impossibile si affrontavano naselli contro capponi arrosto, la passera e lo sgombro con la carne di bue e le anguille contro le salsicce di maiale. Dall’una e dall’altra parte erano poi schierate le verdure, a seconda di come volevano esser condite: se di grasso o di magro.
La consuetudine di astenersi dalle carni, seguita con dovere e senso cristiano, si è mantenuta ben salda fino a qualche decennio fa. Per l’occasione, cuochi e massaie, nel corso del tempo, sono riusciti a stilare veri e propri calendari riguardanti le cose da mangiare in tutto il periodo di Quaresima. Fra i cibi più consumati si ricordano la polenta, le minestre o zuppe di ortaggi, i tortelli a base di erbe, pesce fresco o conservato. Non tutti, però, potevano permettersi alimenti di questa portata e, quindi, chi apparteneva alle classi sociali più indigenti si accontentava di un po’ di pane con companatico che, per lo più, era un’aringa o una sarda secca, da cui deriva la locuzione campana a sarda è sécca. Espressione, quest’ultima, che proviene dall’abitudine di sfregare le fette di pane al pesce essiccato, generalmente appeso ai tralicci in legno delle vecchie case rurali, fino a quando non si consumava del tutto. Nonostante fosse un simbolo di povertà, il suo sapore pungente ravvivava il palato di numerosi commensali, la cui fame, quella vera, veniva finalmente placata con l’arrivo della Pasqua.
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