Una parola al mese. Token, il trionfo delle apparenze
*Marco Cimini -La parola token, pane quotidiano di informatici, esperti di finanza, linguisti
computazionali e semiologi, è uno dei tanti anglismi che ha preso piede nella lingua
italiana a partire dalla seconda metà del secolo scorso, stando al Nuovo De Mauro.
Come accade a persone, luoghi e ricordi, anche le parole vedono la loro condizione
mutare continuamente e inesorabilmente. Si tratta di una caratteristica fondamentale
delle lingue naturali che tutti sembrano conoscere, ma pochi paiono saper accettare. Nel
corso della loro esistenza, la loro collocazione nell’universo linguistico di appartenenza
cambia, così come il loro scopo, le idee e i concetti a loro associati, la loro fama, il loro
prestigio, la loro funzione e i domini, i registri, i generi testuali e le comunità che se ne
appropriano.
I ricercatori sostengono che queste verità siano particolarmente evidenti nel caso dei
prestiti linguistici (i.e., parole o espressioni straniere incorporate nel lessico di un’altra
lingua con adattamenti ortografico-fonetici più o meno evidenti), essendo questi soggetti
alle variazioni che il “viaggio” stesso tra una cultura di partenza ad una di arrivo
comporta.
Token non fa eccezione, avendo subìto una riduzione semantica all’esordio nella lingua
italiana come termine d’uso comune, seppur mostrandosi capace di semi-specializzazioni
sia nel campo economico-commerciale (col significato di “gettone”, “buono”, “unità
concreta di merce”) che linguistico-semiotico (in veste di sostantivo dal significato di
“campione”, “esemplare”, “simbolo”).
È da quest’ultima accezione che deriva il termine “tokenismo”, prestito adattato dall’
inglese tokenism. Un termine finora relativamente poco impiegato in Italia per designare
un fenomeno tanto diffuso quanto controverso nella cultura politico-aziendalistica
occidentale odierna, quello dell’introduzione sistematica e programmata di figure
rappresentanti minoranze etniche o di genere in posizioni apicali al solo fine di veicolare
un’immagine di organizzazione adempiente obblighi più o meno codificati da
regolamenti “ufficiali” e dal senso comune. Il token, e cioè la persona che finisce per
venire rappresentato, a mo’ di esemplare, una più ampia categoria sociale che si vuole
dare l’illusione di includere nelle logiche di ripartizione del potere, è la componente
chiave di questo processo.
Evocare il tokenismo vuol dire inevitabilmente richiamare l’idea delle più note “quote di
genere”. Parafrasando un’entrata del glossario sulla parità di genere dell’EIGE, l’Istituto
Europeo per l’uguaglianza di genere, ci si accorge che questo termine si riferisce a una
nozione però più ristretta, in quanto strumento atto a favorire una partecipazione e
rappresentanza politica di genere equilibrate stabilendo una proporzione di posti da
riservare a donne e/o uomini, solitamente seguendo determinate regole e criteri legati. Il
tokenismo è invece, come suggerisce il suffisso -ismo, un concetto che si discosta dall’idea
di “quota di genere” per almeno tre ragioni: 1) in quanto sistema di idee, o meglio logica
(più che strumento) alla base di una prassi prevalentemente simbolica, né sostanziale né
funzionale a raggiungere veri obiettivi di sostenibilità sociale e inclusività, seppur efficace
in quanto in grado di dare la parvenza di un mondo più equo e rappresentativo; 2) in
quanto meccanismo ricorrente soprattutto nel mondo aziendale, pur essendo
ovviamente presente nel mondo della politica e delle amministrazioni; 3) in quanto
fenomeno non confinato alla differenze di genere, ma riguardante anche differenze
socioeconomiche, etniche, legate alla presenza di disabilità, e così via.
Conoscere e comprendere il fenomeno del tokenismo vuol dire auto-educarsi a non
cadere nel tranello della riduzione dell’identità altrui a piccolo “gettone” da inserire in un
grande ingranaggio. Parlare di tokenismo è importante, perché ci permette di dare un
nome a un fenomeno che va in questa direzione, e a denunciarne le conseguenze. Non
solo: ci rende consapevoli dell’affermazione di una cultura “superficialista” e legata alle
apparenze, che si accontenta di soluzioni semplici a problemi complessi, un po’ come
accade con la progressiva e incontrastata tendenza delle aziende energivore e inquinanti a
praticare il famoso green-washing. Capire il fenomeno del tokenismo vuol dire infine
diffidare dalla retorica semplicistica e propagandistica che le istituzioni sfruttano quando
sfoggiano dati sulla percentuale di figure (apicali e non) appartenenti a etnie minoritarie
rispetto al contesto di appartenenza per il solo fatto di rappresentare una minoranza,
dando l’illusione di fare dei passi avanti, ma essenzialmente preservando lo status quo e
lasciando inalterate le strutture di potere alla base delle nostre società.
*Dottorato in Studi Linguistici, Terminologici e Interculturali – Università degli Studi di
Napoli “Parthenope”
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