Castello di Casertavecchia, qui la chioccia con i pulcini d’oro
– «Riente ʼu turrione ʼe coppa Caserta ce sta ʼnterrate nu tesore: ʼa voccola cu i pucine r’ore. Tutte quanne l’hanne jute cercanne, pecché chi ʼa trove s’adderizze l’osse isse e tutte ʼa discennenza suie».
È l’incipit della leggenda della Chioccia dai pulcini d’oro della Torre di Casertavecchia, la cui versione integrale venne raccolta, anni addietro, dall’antropologo casertano Augusto Ferraiuolo nel suo libro Fiabe e racconti popolari casertani.
Le radici di questa immaginifica narrazione si perdono un po’ “nella notte dei tempi”, per quanto la sua dimensione fiabesca sia realisticamente riconducibile al castello dell’antica Casahirta, tra le più interessanti architetture di età medioevale presenti in Terra di Lavoro. Il suo impianto originario è difatti databile intorno all’anno 861, al tempo del conte capuano Pandolfo Capodiferro, appartenente alla famiglia longobarda dei Landolfidi. Tra quest’ultimi e la leggenda precedentemente richiamata corre una profonda relazione, in cui è possibile tracciarvi non pochi elementi critici e testuali riferibili alla tradizione orale e visiva dei primi longobardi discesi in Italia.
Al riguardo, immediato è l’accostamento tra la “fiaba casertana” e la Pitta di Teodolinda, cioè la chioccia con i sette pulcini, grande capolavoro di oreficeria, realizzato in argento dorato e pietre preziose, oggi conservato nel Museo del Tesoro del Duomo di Monza.
Stando alle fonti conosciute, l’opera risalirebbe al VI secolo e pare sia appartenuta alla regina Teodolinda, moglie, prima, del re longobardo d’Italia Autari e, dopo la morte di questi, di Agilulfo, duca di Torino.
Per quanto il soggetto della chioccia simboleggi il rinascere della vita, attorno ad esso vi sono, poi, nate numerose storie che, con il passar del tempo, si sono diffuse in altri territori italiani, mantenendo, inoltre, il medesimo filo narrativo: la scoperta di un tesoro nascosto all’interno di una fortezza.
Oltre Casertavecchia, leggende simili sono state rinvenute in Puglia e in Calabria e, secondo alcuni studiosi, la memoria di questi racconti è da ricercare anche nell’antica cultura romana, così come in quella greca.
Tale ipotesi dimostra come è possibile tracciare una linea del tempo e innestarvi su di essa alcune tradizioni orali, come quella casertana, che, nonostante il trascorrere dei secoli, hanno mantenuto intatto il loro impianto testuale, per quanto nella loro divulgazione si sia passati dall’impiego di lingue volgari a veri e propri dialetti nostrani.
Al di là di ogni aspetto linguistico, se non anche antropologico, la chioccia dai pulcini d’oro ha oltremodo detenuto la sua valenza di oggetto magico, magari invocato per la soluzione di un problema reale o come dicevano i nostri avi pe’ s’adderizze l’osse isse e tutte ʼa discennenza suie.
Luigi Fusco – Docente di italiano e storia presso gli Istituti Superiori di Secondo Grado, già storico e critico d’arte e guida turistica regione Campania. Giornalista pubblicista e autore di diversi volumi, saggi ed articoli dedicati ai beni culturali, alla storia del territorio campano e alle arti contemporanee. Affascinato dal bello e dal singolare estetico, poiché è dal particolare che si comprende la grandezza di un’opera d’arte.
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