San Giuseppe, la festa del papà si è trasformata in Zeppola Day
– Al forno o fritta, se per questioni di linea o di gusto, sempre zeppola è. Il dolce per eccellenza che si prepara e si assapora nel giorno di San Giuseppe e per celebrare la festa del papà. Le sue origini sono antichissime e probabilmente fondano le radici al tempo dei romani. Difatti, più o meno nello stesso periodo, in occasione dei Liberalia, cioè delle solennità in onore di Bacco e Sileno, si allestivano lauti banchetti e grosse bevute di vino e, inoltre, per ingraziarsi le divinità si friggevano frittelle di frumento. La versione post-pagana di questa pietanza assunse una diversa forma, assimilabile, in parte, a quella dell’odierna zeppola. Pare che la sua invenzione sia stata conventuale, avvenuta per mano delle monache di clausura di San Gregorio Armeno, mentre, secondo altri studiosi, le vere “autrici” sono state le suore del complesso monastico della Croce di Lucca.
Al di là delle ricostruzioni storiche più antiche, la vera zeppola di San Giuseppe, nella sua classica forma circolare con crema pasticcera e ciliegina sciroppata, venne descritta, la prima volta, da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino nel suo trattato di Cucina teorico-pratica, edito nel 1837 e scritto interamente in napoletano. Secondo la sua versione per preparare la zeppola bisognava, prima di tutto, mettere ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza caraffa d’acqua fresca, e nu bicchiere de vino janco, poi appena si iniziavano a vedere le “campanelle” e l’acqua bollire si poteva inserire poco a poco miezo ruotolo, o duje tierze de sciore fino, votanno sempre co lo laniaturo; e quanno la pasta se scosta da tuorno a la cazzarola si poteva togliere e poggiare ncoppa a lo tavolillo, co na sodonta d’uoglio, infine, quando era mezza fredda, si cominciava a lavorarla menandola co lle mmane per farla schianà. Lo stesso Cavalcanti, nella sua narrazione continuava affermando che si per caso nce fosse quacche pallottola de sciore: ne farraje tanta tortanelli come sono li zeppole, e le friarraje, o co l’uoglio, o co la nzogna, che veneno meglio, attiento che ta tiella s’avesse da abbruscià; po co no spruoccolo appuntuto le pugnarraje pe farle suiglià, e farle venì vacante da dinto; l’accuonce dinto a lo piatto co zuccaro, e mele. Pe farle venì chiù tennere farraje la pasta na jurnata primma.
Se arduo dal punto di vista linguistico è stato il ricettario del Cavalcanti, ben più semplice e saporita è stata la sua cucina, tanto apprezzata dai napoletani e non solo, come nel caso delle golose zeppole di San Giuseppe.
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